La mostra, con interventi site-specific negli spazi del Museo d’arte Mendrisio, indaga le prospettive transitorie del particolare ambiente storico che caratterizza l’intero Complesso dei Serviti. L’esposizione si compone di tre installazioni esterne nell’antico Chiostro (Arundo 1, Arundo 2 e Fluo), un’installazione nel grande Salone al primo piano (Demo) e una serie di lastre a parete (Matrici). Il titolo dell’intero progetto è un chiaro riferimento alla lingua latina usata dall’ordine dei Serviti, coloro che nel XV e XVI secolo trasformarono l’antico ospizio nel convento che oggi è sede del museo.
Nell’installazione ambientale esterna l’artista elabora l’ambiguità dello spazio (luogo aperto e chiuso, religioso e architettonico) inserendo nella pianta quasi quadrata del chiostro ad arcate due “organismi” blu indaco (Arundo 1 e Arundo 2) che si innalzano in direzioni diverse e ad altezze diverse. La retta e il semiarco riecheggiano, nel nome e nella forza propulsiva, lo slancio della natura che si eleva oltre il confine del fabbricato, sfidano gli attuali limiti spaziali dell’edificio e rompono i rigidi confini del quadrilatero, conducendo alla terza dimensione. Se la linea curva si muove sul globo terrestre come un meridiano riprendendo, inoltre, l’architettura esistente, la linea retta si espande all’infinito, verso l’alto (e verso l’altro). A seconda della prospettiva, i due tubolari corrono paralleli, si discostano o si sovrappongono, come gli zampilli di antiche fontane.
Il riferimento all’acqua è il collegamento invisibile con il terzo elemento dell’installazione, Fluo, “ombelico” del chiostro: una pianella d’ottone a sostituzione dell’attuale bocchetta di raccoglimento delle acque pluviali sulla quale Tallone ha inserito 12 tagli, simili ai numeri romani sul quadrante dell’orologio meccanico nella parete frontale dell’edificio. Ma questi non rivelano l’ora: accolgono il tempo e raccolgono le acque in una duplice veste funzionale e concettuale di grande eloquenza. Ulteriore nesso significante tra le strutture dell’installazione sono i colori scelti, l’indaco e l’oro, omaggio alle cromie basilari dell’arte sacra.
L’installazione interna custodisce un implicito riferimento alle ipotetiche antiche funzioni dell’attuale Salone espositivo come refettorio del complesso dei Serviti. Il visitatore è sottoposto a una serie di silenziosi meccanismi di socialità attraverso la rappresentazione di un rituale (il banchetto) senza commensali. Un macroscopico tavolo di 20 metri si presenta in un’apparecchiatura semplice e straniante; la gestualità simbolica è cristallizzata in tovaglioli piegati e inamidati per conservare le tracce del loro utilizzo. Come già in altri progetti del passato, anche in questo lavoro la stoffa acquista per l’artista una dimensione sovratemporale e collettiva nel suo essere segno plastico e testimonianza delle più intime attività umane. L’assenza dei commensali è anche acustica: il grande Salone risuona di un silenzio che è privazione e condivisione: il titolo scelto, Demo, fa infatti riferimento sia a un campione sonoro dimostrativo sia a una demo-grafia al suo stato minimo, spostando l’attenzione dal pieno (l’azione esplicita) al vuoto (ciò che la tavola evoca). In un momento storico caratterizzato dalla privazione dei principali contatti umani, Tallone ci invita a una riflessione sul senso dello spazio e sul significato, quanto mai attuale, di una convivenza altra.
Sulla parete lunga dello stesso Salone una serie di immagini stampate ripropone, nei colori caldi del frumento, ciò che resta del momento del pasto: briciole, impronte, avanzi, ombre. Nella scelta del supporto (lastre utilizzate nella tecnica di stampa) Tallone ribadisce il proprio codice “inverso” ribaltando il processo creativo: il prodotto finale non è la carta bensì la stessa matrice tipografica in metallo sulla quale sono impressi quei momenti del desinare che non trovano traccia all’interno della macro-installazione, ma di cui sono complementari nella loro rappresentazione in negativo.